Naturalmente è Livio
“Non è facile, la gente lì ci va tutta carica. Ci vanno i migliori. Noi ci dobbiamo cominciare ad esercitare da subito, anche, magari, ad un livello un po’ più alto di quello che può essere un quinto ginnasio.”
“Va bene, professore. Mi dà delle versioni in più, per esercitarmi?”
“Sì, ecco. Stavo pensando di fare principalmente classici: un sacco di Cicerone, poi Tacito, Sallustio, Seneca, un po’ di Svetonio… e magari qualche cosa strana, tipo i Vangeli, il Satyricon, gli autori tardoantichi…”
“Meno male che siamo a Gennaio… ci vorrà un sacco di tempo!”
“Sì, infatti. Vabbe’, dai. Ora facciamo lezione. Poi, magari, all’uscita, rimani dieci minuti e ne parliamo.”
Naturalmente non facemmo niente di tutto questo.
La verità è che la nostra enorme preparazione consistette essenzialmente in due, dico due, volte in cui mi fermai per una ventina di minuti dopo l’uscita, per tradurre “all’impronta” qualcuno di questi passi. A casa, qualche versione in più la feci, è chiaro, ma eravamo comunque molto, molto lontani dai livelli di allenamento che ci eravamo prefissati. Capita. Insomma, io e il professor Franchi andavamo incontro al Certamen Latinitas, organizzato dall’Università di Tor Vergata con una preparazione che rasentava il ridicolo. O almeno così credevamo.
Correva l’anno 2011 (diosantocomemimancheràilliceo) ed io avevo una ventina di chili ed un paio di diottrie in più: i primi li ho persi per strada, le seconde ce le ho sparse da qualche parte sul Montanari. Facciamola breve: il professore mi chiese se volevo partecipare ed io, galvanizzato e spaventosamente terrorizzato, accettai. Miei compagni, in quest’avventura, sarebbero stati Jacopo Spagnolo e Jessica Ballerini. Andava forte la J, quell’anno…. Nonostante tutto, mi sentivo abbastanza forte: vedere che riuscivo, senza troppa difficoltà, a smontare e rimontare periodi di gente cattiva e crudele come Seneca e Tacito mi aveva dato molta fiducia. Il problema era uno solo. Livio. Livio maledetto. Il professore stesso era rimasto piuttosto stupito della facilità con cui riuscivo a cavarmela con gli altri autori, ma quell’infame del Padovano proprio non riuscivo a comprenderlo. E sì che non è neanche un autore tanto difficile. Comunque, arriva Maggio, più precisamente il 27. Quella mattina, l’indimenticato (ed indimenticabile) professor De Ruvo sarebbe stato il nostro Caronte, che ci avrebbe traghettato verso l’Inferno di una umiliazione “teribbile”, umiliazione che sentivamo praticamente certa tutti e quattro. C’è da dire che comunque Caronte guidava più tranquillamente, ma sono dettagli.
Insomma, arriviamo a Tor Vergata e conosciamo l’Anfitrione che ha organizzato tutto: il professor Paolo Marpicati. Un tipo con una sconvolgente somiglianza con George Clooney ed un senso dell’umorismo sul surreale andante, sostenuto da un vocione profondo alla Frank Sinatra. Tra una freddura e l’altra (ne ricordo una agghiacciante: il computer veniva definito “machina computatrix”, roba che neanche Jules Verne), ognuno si ritrova seduto al suo banco, con tanto di plico contenente la prova. Poi si procede all’identificazione dei concorrenti ed io faccio la figura del “bello di mamma”, perché ancora non ho la carta d’identità. Ancora oggi, mi vergogno come un assassino. C’è giusto il tempo di un ultimo “in bocca al lupo” col professor Franchi, prima che cominci la prova. Lui mi rassicura: “Vedrai che non capiterà Livio. E’ troppo scolastico: avranno scelto qualcuno di più difficile!” Apro la busta. Naturalmente è Livio. Dopo aver ripassato il calendario, mi metto al lavoro con la consapevolezza della difficoltà che questo autore rappresenta per me. Le prime righe procedono piuttosto sciolte e rimango piacevolmente stupido. Proseguo senza troppi problemi, fino ai tre quarti della versione. In cauda venenum. Le ultime cinque righe erano assolutamente incomprensibili. Praticamente capivo solo i sostantivi e neanche tutti i verbi. Lì mi prende il panico. C’è una sola soluzione: sfoderare una furibonda faccia da… politico. E lo faccio: basandomi su quel poco che capisco, invento completamente cinque nuovissime ed inedite righe di Tito Livio. Al triennio avrei scoperto che fare così si chiama “traduzione d’autore”. Finisco la mia traduzione, convinto che il peggio sia passato. E ovviamente non è così: bisogna fare il commento del brano tradotto. Io non avevo la benché minima nozione di stile sull’autore, visto che facevo ancora il ginnasio. Fu lì che la mia faccia da politico divenne una faccia da Presidente del Consiglio pluripregiudicato. Ancora oggi, mi fregio dell’onore di aver tirato su una pagina e mezza, dico una pagina e mezza, di nulla. Nulla puro. Però scritto benissimo: la carriera politica, dopotutto, è un’opzione da non sottovalutare. Ricordo ancora un capolavoro di “paraculitas” che scrissi, non sapendo assolutamente niente dello stile di Livio: “L’autore riesce a rendere interessante il fatto storico per un lettore, adottando uno stile solenne, ma non eccessivamente elevato, dato l’intento divulgativo dell’opera”. Per quello che avevo scritto, sarebbe potuta essere anche una recensione di un romanzo di Moccia. Andava bene su tutto. Stremato da questo estenuante esercizio di “paraculitas”, abbandono l’aula. Il mio umore si risolleva un pochino, di fronte ad un cappuccino ed alla condivisione delle mie ansie con i miei compagni di sventura. Torniamo al furgoncino con cui il professor De Ruvo ci aveva accompagnato, giusto in tempo per vederlo cacciare un urlo orribile, appena poggiato il posteriore sul sedile. Erano i tempi in cui a Maggio faceva ancora caldo. Tutti bravi, in bocca al lupo, dai che siamo forti. Ognuno a casa sua.
La sera, squilla il telefono. Rispondo: è il professor Franchi, che non riconosce la mia voce e mi chiede di parlare con Jacopo. Sia messo a verbale che sono ancora irrimediabilmente offeso. Appurato che io sono io, il professore mi chiede se ho fatto la versione per il giorno dopo ed io, ormai consumato artista della “paraculitas”, con ancora il controller della Playstation in una mano, mento, sapendo di mentolo. A quel punto, il professore mi spiega il motivo della telefonata: ha parlato con la giuria. Sembra che io sia sul podio. Chiedo se è uno scherzo. Pare che no. Rimanendo entrambi, increduli in silenzio, pensiamo a quanto dovevano aver fatto schifo le altre prove, se io ero sul podio. Ringrazio il professore e riattacco il telefono. Il giorno dopo, ci avviamo verso Tor Vergata in un silenzio quasi mistico, in quanto la possibilità della smentita all’ultimo minuto era concreta. E invece no: grazie alla sopraffina arte della “paraculitas”, mi ero guadagnato una non disdicevole “Tertia Palma”, facendo fuori altri quaranta concorrenti che, se ho vinto io, se lo meritavano di perdere, diciamocelo. E pure 200 Euro, che buttali via.
In barba a tutti quelli che dicono che il Latino non serve a niente.